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La Badante a Roma come Nuova Figura Sociale

La Badante a Roma come Nuova Figura Sociale

Per vent’anni le badanti di Roma sono state le invisibili tra gli invisibili. Di loro non abbiamo voluto sapere nulla: né chi fossero, né da dove venissero, né come facessero a fare il loro lavoro. Eppure non è per niente facile essere una badante a Roma.

Essere continuamente “l’estranea di casa”, e “una di casa”.

Essere colei che si occupa della casa, del corpo e dell’anima. Colei che nutre, cambia, lava e medica; e colei che coccola, consola, custodisce. Le braccia a volte non bastano neanche a Roma.

Serve il cuore. «Badare è un verbo particolare, che sta a metà tra lavorare e amare» dice l’antropologo Francesco Vietti. «Da una badante ci si aspetta non solo che vesta, cucini e cambi le medicazioni, ma anche che sia gentile, disponibile, amichevole, che dia affetto, calore, conforto alla persona che le viene affidata».

Talvolta questo coinvolgimento affettivo è l’esito naturale di un rapporto intimo, di condivisione di tempo, di spazi, di frammenti di vita quotidiana. Viene facile: come quando l’estate segue la primavera. «Dana non è per me solo la persona che mette in fila le pastiglie» racconta Sandra, una signora invalida. «Lei è soprattutto la testimone dei miei pensieri più profondi, colei che lenisce le mie paure, accarezza i miei sogni quando dormo, custodisce i pochi ricordi che sopravvivono alla mia malattia e li consegna ai miei figli». E infatti, non di rado, tra chi offre le cure e chi le riceve nascono delle relazioni molto profonde, indissolubili. Come quella che ha legato per quarant’anni Marisa C., insegnante 96enne di discendenze nobili, e la sua badante. Nel testamento vergato a mano prima di morire, l’anziana aveva disposto che una parte importante della sua eredità fosse destinata, oltre che ai suoi alunni, alle sue amiche e ad alcune Ong, anche al personale di casa e in particolare ai figli della badante a cui lei, che non aveva avuto figli, aveva voluto bene come fossero suoi nipoti.

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Altre volte però, spiega Vietti, il coinvolgimento affettivo è preteso, reclamato, imposto dall’alto. «A tate e badanti si chiede di prendersi cura degli anziani come fossero i loro genitori, o dei bambini come farebbero con i propri figli. Ci si aspetta delicatezza, premurosità, affetto, dedizione. E poi tempo: i giorni, le notti, i weekend, le feste, le vacanze. Raramente si tiene conto che questo tempo, e questo affetto, è un furto alle loro vite e alle loro famiglie». Lo racconta anche Irina, una donna ucraina di 55 anni, mentre con le mani segnate dalla fatica piega gli asciugamani. «Quindici anni fa sono venuta a Bologna per raccogliere denaro affinché le mie bambine potessero avere una vita agiata. Sebbene la signora mi voglia bene e anche io gliene voglia, solo adesso mi rendo conto che il nostro legame nasce da uno strappo, da una violenza. Quella che ho dovuto compiere su me stessa, per allontanarmi. Tutto il tempo e l’amore che ho donato a lei, l’ho scippato alle mie figlie». «Il sangue non si sciacqua» scrive Marco Balzano, mettendo a fuoco proprio le ferite e le lacerazioni di queste donne. Nel suo ultimo romanzo, Quando tornerò (Einaudi), non si limita a raccontare la storia di una di loro, Daniela, venuta a Milano fare la badante, ma allarga l’inquadratura anche sui vissuti dei figli, dei mariti, e di chi di solito resta nel proscenio, con le tessere sparpagliate di quella che, prima della partenza, era una famiglia. Perché per ogni donna che arriva nelle nostre case per prendersi cura dei nostri anziani, c’è una famiglia nel Paese di origine che viene dilaniata. Anziani e mariti che restano soli; figli affidati ai nonni o agli zii: sono i cosiddetti “orfani bianchi”, bambini spesso a rischio di disagio psicologico, fino all’atto estremo del suicidio. Il romanzo non fa sconti, scandaglia le necessità di ognuno, i traumi, le aspirazioni, l’ambivalenza dei sentimenti. «Non mi importa il giudizio, l’attribuzione di responsabilità, il moralismo, la denuncia» spiega Balzano. «Mi importa, invece, scrivere e consegnare quelle storie che, per molte ragioni, preferiamo non dirci, silenziare, obliare, rimuovere. Sono convinto che è solo conoscendo le storie che possiamo diventare più umani». Negli ultimi vent’anni, anche se qualcuna è riuscita ad ottenere un salario (più) dignitoso, delle giornate di riposo e i diritti minimi di ogni lavoratore (che non siano molte, lo dimostrano i dati nel riquadro sotto a sinistra), una forte asimmetria di potere, genere e classe continua a separare le collaboratrici domestiche dalle famiglie di cui si prendono cura. «In passato in fondo al corridoio c’era la porzione di casa che “i signori” riservavano alla servitù. Ora, per fortuna, i rapporti sono cambiati .

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